Fonte: Avvenire
Lavorano anche se non in regola, si spostano per necessità come i
migranti, preferiscono abitare in case e non in campi-ghetto, quindi
basta chiamarli nomadi. La prima indagine nazionale sulla condizione di
rom e sinti, presentata ieri a Milano dalla Casa della Carità, smentisce
i pregiudizi radicati in Italia sul «popolo del vento». Curata in
collaborazione con il consorzio Aaster e svolta nel progetto «Eu
Inclusive», la ricerca copre un buco tutto italiano.
«Abbiamo
avuto tre anni di stato d’emergenza – spiega il sociologo Aldo Bonomi,
curatore della ricerca – che attribuiva poteri straordinari ai prefetti
di cinque regioni in riferimento ai rom e ai loro insediamenti, ma non
sapevamo nemmeno quanti fossero e quali problemi avessero. Ora sappiamo
che sono circa 170 mila, la metà italiani, che in tutto sono solo lo
0,2% della popolazione e che il 60% è minorenne. Eppure fanno paura e la
loro condizione è stata trattata per anni come problema di ordine
pubblico. Ora almeno il linguaggio pare cambiato».
Lo stato di
emergenza, ricordiamo, è stato giudicato illegittimo dal Consiglio di
Stato, ma un ricorso presentato a febbraio dal governo potrebbe
sospendere la sentenza e tornare all’emergenza. Questa situazione ha
portato a un blocco delle risorse già stanziate, vale a dire 33 milioni
di euro in tutto il Belpaese e cinque milioni solo a Milano, stanziate
per il piano elaborato dall’ex ministro dell’Interno Maroni.
Ma
veniamo alla fotografia dei rom in Italia, scattata intervistando 1668
persone di 60 insediamenti in 10 regioni italiane. Conferma la
situazione di povertà, esclusione e discriminazione di questa minoranza
etnica che in tutta Europa è lo standard su cui misurare le politiche di
inclusione.
Anzitutto il tasso di occupazione è più alto del
previsto. Quasi il 35% ha un lavoro, anche se a volte irregolare, e
l’ambito lavorativo è quello dove meno si sentono discriminati (circa il
30%). L’universo degli occupati è composto da un 20% di regolari e un
11% di irregolari, mentre tutto il resto fa lavoro nero, soprattutto
come autoimpiegati in settori quali la raccolta di metalli o l’edilizia e
in attività domestiche nel caso delle donne, di cui solo una su cinque è
occupata perché si occupano dei figli. Il totale dei disoccupati è il
27%, oltre due su tre di costoro si dicono disposti a lavorare.
«Ma
occorre riflettere sull’irregolarità distinguendola dall’informalità –
aggiunge Bonomi – ad esempio a Berlino, pagando sei euro al comune, i
musicisti di strada rom ottengono un’autorizzazione a suonare anche sul
metro girando gratis. Da noi non se ne parla, eppure sarebbe un passo
avanti verso l’inclusione, che sarebbe la strategia da perseguire, non
l’assimilazione. Trattiamoli da migranti, sette su 10 vengono in Italia
per miseria».
Se l’ambito lavorativo è centrale, la casa è il
secondo fattore di inclusione sociale. Infatti quasi la metà dei rom che
vivono in abitazioni è occupato, mentre tra gli abitanti dei campi
abusivi la percentuale scende al 24%. E in Italia, soprattutto in città
come Roma e Milano, tre quarti di rom e sinti vive in insediamenti a
loro esclusivamente destinati simili ai ghetti con forti conseguenze
anche in termini di istruzione.
Se solo uno su quattro dichiara
infatti di avere la licenza elementare, tra i rom che vivono in campi
irregolari il 23% dei minori non sono scolarizzati contro il 7% di
coloro che vivono in casa. In generale quasi il 20% dei rom è
analfabeta, percentuale che cresce per le donne al 25% e si riduce al
10% considerando i minori di 20 anni. Da sfatare il mito che non
vogliono vivere in case, solo un terzo risiede in case di proprietà o in
affitto, ma l’85% dei provenienti dalla ex Jugoslavia e il 62% dei
provenienti dalla Romania ha un progetto migratorio stanziale ed è
disponibile a restare in Italia dove è arrivato per cercare un lavoro e
una qualità di vita migliore . Semmai il problema della vita in campi o
in realtà abitative diverse riguarda rom e sinti italiani che sono
giostrai, circensi o allevatori di bestiame. Quanto alla
discriminazione, i rom si sentono esclusi dall’accesso ai servizi
(67,5%) e nei luoghi pubblici (34,3%).
«Ma il 72% dei rom
dichiara che la discriminazione non è diminuita negli ultimi dieci anni –
commenta Bonomi – significa che occorre lavorare sull’opinione
pubblica».
Infine il mito della ricchezza: tre quarti dichiarano un reddito famigliare di 600 euro mensili, sotto la soglia di povertà.
Per
il presidente della Casa della Carità, don Virginio Colmegna, occorre
intensificare «i progetti di mediazione e accompagnamento sociale che
partono dai diritti di queste persone, le rendono protagoniste e, al
tempo stesso, ascoltano i bisogni e le difficoltà dell’intera
cittadinanza. Va garantita la dignità con l’accesso alla sanità,
all’istruzione e alla casa, diritti universali, non la favela. Serve un
piano nazionale e piani locali, ma non si può andare avanti solo
condizionati dalla pressione dell’opinione pubblica con risposte di
emergenza».
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